Il centro storico di Àtena va percorso a piedi, lasciandosi condurre dalle sue vie curvilinee, che disegnano tre ellissi gradienti intorno ad una terrazza un tempo dominata da un castello.
È passeggiando tra questi vicoli che si può cercare di narrare la storia di uno dei più antichi insediamenti del Vallo di Diano, anche se solo l’apertura dell’Antiquarium Comunale, ormai da troppo tempo rimandata, potrebbe permettere di conoscere al meglio questo piccolo centro.
L’epiteto Lucana, aggiunto nell’Ottocento, restituisce memoria di un lontano passato, quando gli Atinates erano, come ricorda Plinio, tra i Lucani del Mediterraneo (V-III secolo a.C.). Ma l’origine di Atena risale ancora più indietro nel tempo: a sud dell’abitato è stata infatti rinvenuta una necropoli i cui corredi sono databili tra VII e VI secolo a.C. e rivelano influssi greci provenienti dalla costa.
Di discussa datazione, ma probabilmente anteriori al IV secolo a.C., sono invece i resti di mura megalitiche, di cui oggi è visibile solo un brano in località Serrone.
Si suppone che esse cingessero la collina a sud di Atena, formando una semi-ellisse di circa 2 km, che si sarebbe raccordata con gli estremi est ed ovest dell’attuale paese.
Quest’ultimo corrisponderebbe all’acropoli dell’antico insediamento, fortificata a sua volta, come attesta un altro tratto murario, inglobato in un muraglione moderno sotto la Chiesa di S. Maria.
La fase romana di Atina, conquistata insieme alla Lucania nel III secolo a.C., è attestata da numerose epigrafi funebri ed onorarie, alcune delle quali, reimpiegate negli edifici della cittadina, sono state inserite in un bell’itinerario epigrafico, con tanto di pannelli esplicativi.
È questo un modo intelligente per valorizzare e fare conoscere la storia del proprio paese.
Punto di partenza per la visita è il piccolo monumento con l’emblema comunale, sovrapposto ad una stele funeraria romana.
Nello “stemma parlante” raffigurante un cervo con la scritta Acteon ego sum (Io sono Atteone) si gioca sull’assonanza fonetica tra il nome della cittadina ed il personaggio mitologico.
La leggenda locale vuole che Atteone fosse stato trasformato in cervo e sbranato dai cani sull’altura di Atena, per ordine della dea Diana da lui sorpresa mentre si bagnava con le sue ninfe.
Imboccando la strada in salita, si giunge alla Chiesa Madre di S. Maria Maggiore di origine medievale ma profondamente ristrutturata in epoca barocca, ad eccezione del campanile trecentesco.
All’interno, è degno di nota il ciclo decorativo di Nicola Peccheneda, costituito da una serie di episodi tratti dalla vita di Maria - ospitati nell’abside - e da otto santi lungo le pareti laterali della navata.
Le tele dal vigoroso cromatismo rientrano nel solco della tradizione solimenesca, memore della svolta finale del pittore, e sono databili nel sesto decennio del XVIII secolo. Salendo per i vicoli stretti si giunge al Santuario di S. Ciro , uno dei punti più alti dell’abitato.
Anche questa chiesa, frutto di rifacimenti avvenuti tra il ‘700 e l’800, ha un’origine medievale, quando era più piccola e dedicata a S. Michele Arcangelo.
A quell’epoca appartengono l’affresco con il Cristo dipinto sulla parete della sacrestia, la croce scolpita a rilievo a fianco, nonché il capitello poggiato a terra nell’aula a destra dell’abside.
Gli storici locali ritengono inoltre che qui fosse il tempio pagano dedicato alla Magna Mater, ricordato da un’iscrizione ritrovata presso la chiesa. Prendendo il vicolo retrostante S. Ciro, si raggiunge il terzo livello ellittico (Corso Castello).
Pare che proprio qui siano stati rinvenuti nell’Ottocento i lastroni che compongono, seppure in modo frammentario, una grande epigrafe del I secolo d.C. - oggi nell’Antiquarium - attestante l’esistenza di un foro romano pavimentato. Sulla terrazza in cima al paese, nell’area denominata Castello 5, fu costruito in epoca medievale un fortilizio, rafforzato con un’imponente Torre dai Sanseverino, che furono signori di Atena dalla fine del XIII secolo.
Questo baluardo, di altezza smisurata, tanto che secondo la leggenda dalla cima si traguardava il mare, fu utilizzato come una sorta di “telegrafo” per avvertire del pericolo gli altri castelli della potente famiglia, disseminati in buona parte del Vallo di Diano.
Gli storiografi secenteschi raccontano che Antonello Sanseverino era solito festeggiare l’anniversario del suo Principato facendo bruciare dalla cima della torre una «girandola di fuoco, come s’usa in Roma nel Castello dell’Angelo nella creazione del Papa; e questo perché essendo quel castello in sito molto sollevato, et alto, da’ luoghi del suo stato, che buona parte eran in questi contorni, fusse veduta» (Mandelli).
A parte blandi resti della recinzione fortificata, poco rimane di questa rocca, che fu probabilmente gravemente danneggiata dal terremoto del 1561, per poi essere utilizzata da Giovanni Caracciolo ( 1620) come cava di materiali per la costruzione del suo palazzo baronale.
Oggi questo cocuzzolo è di proprietà privata, ma arrivati all’ingresso in Corso Castello, si può provare a chiedere il permesso per salire e dominare dall’alto la piana. Ritornando allo stemma di Atteone, possiamo dirigerci, lasciando sulla sinistra una delle torri circolari della cinta medievale, verso il Palazzo Baronale che i Caracciolo costruirono, come si è detto, saccheggiando la rocca e risparmiando così sui materiali! Il bel portale bugnato permette di accedere ad un androne con copertura a botte completamente decorato con colorati stemmi nobiliari.
La visita si può concludere con una passeggiata al Santuario di S. Maria della Colomba, posto sull’altura di fronte.
Per arrivarci si imbocchi Via Roma e si prosegua dritti per 800 metri, sino ad incontrare una curva a gomito, dove si deve girare a sinistra seguendo i cipressi. Da quassù si gode una favolosa veduta su Atena circondata dai suoi campi.
La chiesa, in deplorevole stato di conservazione, presenta sulle pareti laterali degli affreschi mariani, opera di Anselmo Palmieri (1713). Si tratta del primo vasto ciclo pittorico noto di questo pittore di Polla che, al passo con le tendenze artistiche napoletane, contribuì a diffondere nella provincia i modi di Luca Giordano, seppure in forme meno strutturate.