La Certosa di S. Lorenzo, chiusa all’interno della sua cinta muraria, si svela progressivamente agli occhi del visitatore. La regia è affidata all’architettura, che guida attraverso cortili e ambienti abilmente scolpiti nella pietra locale dalla “gloriosa schiera di artisti e scalpellini padulesi” (Sacco 1914).
Il monastero fu fondato nel 1306 dal conte di Marsico, Tommaso Sanseverino, e quindi donato ai Certosini per “calda devozione e pietà religiosa”, così come recitano i documenti. In realtà la mossa dei Sanseverino, padroni del Vallo di Diano, fu prettamente politica, volendo ingraziarsi il sovrano Angioino ed offrirsi come importante pedina strategica nella difesa contro l’avanzata degli Aragonesi.
Dell’epoca di fondazione rimane oggi l’impianto complessivo e poco altro, poiché la straordinaria ricchezza dell’Ordine permise ai Certosini di ammodernare e ampliare continuamente il monastero.
La Regola certosina imponeva l’isolamento individuale del monaco dalle attività comunitarie, il che determinò l’architettura conventuale, caratterizzata dalla presenza di una domus inferior, destinata ai conversi (i certosini che continuavano ad avere contatti col mondo esterno e provvedevano all’intera comunità), distinta da una domus superior, regno del silenzio e della contemplazione e costituita da una zona “cenobitica” e da una “eremitica”.
Oltrepassato il portale d’ingresso, si accede alla Domus inferior, in cui attorno ad un cortile centrale, luogo di scambio e di negozi, si disponevano le abitazioni dei conversi e gli edifici di servizio: stalle, granai, mulini, frantoi, peschiera, laboratori artigianali.
Soffermandoci al centro di questa prima corte, siamo colpiti dalla vista della pietra sapientemente scolpita e dalla bella pavimentazione in ciottolato, recentemente riportata alla luce.
Dallo scalone parte l'asse prospettico che percorrendo il monastero, si raccorda alla via che conduce all'arco di San Brunone
La cortina continua degli edifici laterali e la facciata - che segna in modo monumentale il limite tra l’area pubblica e quella riservata ai monaci - ci avvolgono nel loro bianco abbagliante, a cui si contrappone in alto solo il blu del cielo. Nella facciata cinquecentesca, ultimata nel 1723 da sculture e coronamenti barocchi, in parte realizzati da Andrea Carrara e dalla sua bottega, svetta sopra il portale la nicchia senza fondo con la Madonna e la scritta “felix coeli porta”, in un gioco di pieni e di vuoti, di pietra e di cielo, ove la Vergine sembra stare lì pronta ad accogliere il monaco che si ritira in preghiera.
Oltre questa porta si apre la zona cenobitica con gli spazi destinati alla vita comunitaria, frequentati dai conversi e solo saltuariamente dai padri, che avevano scelto una vita di totale clausura.
Tali spazi si dispongono attorno al cinquecentesco Chiostro della foresteria, ammodernato in epoca barocca con decorazioni di Francesco de Martino di Buonabitacolo e Nicolò di Sardo.
Diversamente da altri ordini religiosi, che concepiscono l’arte come una pericolosa distrazione, i Certosini non la rifuggono ma la considerano un modo per avvicinarsi a Dio, seppure nella solitudine rigorosa dell’area claustrale.
All’interno della Certosa l’arte trionfa nella zona cenobitica, “luogo degli effimeri abbandoni”, così come lo definisce Vega De Martini nei suoi scritti su S. Lorenzo. È soprattutto in questo nucleo, che operarono nel corso del XVII e XVIII secolo pittori, scultori, scalpellini, intagliatori, stuccatori di varia provenienza.
Scrigno d’arte è la Chiesa, a cui si accede attraverso un maestoso portale in cedro del Libano del XIV secolo, e che all’interno è bipartita da due splendidi cori lignei cinquecenteschi, riservati l’uno ai conversi, l’altro ai padri.
Entrando si rimane impressionati dal barocco sontuoso: la struttura medievale dell’edificio è rivestita da stucchi dorati realizzati da artisti siciliani; la volta è affrescata con scene veterotestamentarie, opera del palermitano Michele Ragolia; il pavimento in cotto e maiolica, in corrispondenza del coro dei padri, è decorato con volute e motivi fitomorfi ed attribuito alla bottega dei Massa;
l’altare maggiore è in scagliola, con inserti di pietre dure e madreperla, opera di Bartolomeo Ghetti su disegno di Gian Domenico Vinaccia. In realtà tutti gli ambienti dell’area cenobitica furono riccamente decorati da artisti ed artigiani, che ben conoscevano le tendenze artistiche partenopee. Così nel Chiostro del cimitero antico il richiamo stilistico è a Domenico Antonio Vaccaro; nel Chiostro dei procuratori è stata ipotizzata la mano di Ferdinando Sanfelice; nella Sala del capitolo 6 gli affreschi della cupola sono di scuola romana;mascherone nel muro di cinta della certosa presso la Torre degli Amigeri da cui fuoriusciva il canale che portava acqua nel monastero nel Refettorio i raffinatissimi stucchi sono opera di artisti napoletani, mentre l’olio su muro, raffigurante in toni fiabeschi le Nozze di Cana, è opera di Alessio D’Elia, formatosi sempre a Napoli.
In quest’aula i monaci mangiavano solo nei giorni festivi, ascoltando la lettura delle Sacre Scritture, fatta dal pulpito marmoreo. Espressione degli “effimeri abbandoni” è infine l’Appartamento del priore, articolato in più di dieci vani e dotato di una ricchissima cappella, un giardino con loggia, un archivio e una Biblioteca , a cui si accede mediante una mirabile scala elicoidale, i cui gradini sono raccordati in un cordolo di pietra senza l’impiego di calce.
Nella Regola certosina la biblioteca era riservata al priore e solo saltuariamente gli altri padri vi potevano entrare per prendere i volumi da leggere nelle proprie celle (fatta eccezione per quelli posti nello scaffale dei libri proibiti, come ancora indica il cartiglio sulla libreria lignea).
L’altro nucleo della Domus superior è l’area eremitica, organizzata attorno all’immenso Chiostro maggiore (grande come due campi da calcio!), ove potevano entrare solo i padri, che vivevano in totale clausura.
Il chiostro è l’esito di una profonda ristrutturazione, avviata alla fine del XVI secolo sotto il priorato di Damiano Festini, che ne fu l’ideatore, e portata avanti nel corso del XVII secolo con l’intervento del bergamasco Cosimo Fanzago, coinvolto anche in lavori di altre certose meridionali.
In contrapposizione agli “effimeri abbandoni” dell’area cenobitica, è questo il luogo definito da De Martini delle “composite compostezze”. Attorno al cortile si aprono le celle dei padri, punto focale e modulo regolatore di questo nucleo, caratterizzato da un’architettura essenziale e rigorosa, che ottimizza gli spazi. Ogni cella, destinata ad un monaco, è articolata come unità abitativa autonoma e dotata di un piccolo giardino con fontana, che era coltivato dal monaco e delimitato da un alto muro di cinta. Le Corbusier, uno dei padri dell’architettura moderna, in seguito al suo viaggio nella Certosa di Val d’Ema (Firenze), scrisse che gli sarebbe piaciuto riproporre per le case operaie il blocco della cella certosina interamente indipendente e garante di una totale tranquillità. Nel grande chiostro, sopra il quale fa capolino l’altura di Padula con le sue case, regnava la quiete totale, un silenzio che ancora oggi assorda e che viene infranto solo nei mesi estivi ,quando in occasione dei corsi di perfezionamento musicale qualche musicista si rifugia in una di queste stanze per trovare l’ispirazione, rapito dalla magica atmosfera che lo circonda.
Silenzio e solitudine sono alla base della spiritualità certosina e presupposto per incontrare Dio. Il percorso fatto per giungere al grande chiostro rappresenta simbolicamente l’itinerario spirituale compiuto dai monaci che, superando mura e attraversando porte, si staccavano dalle questioni fisiche e dal mondo terreno per raggiungere, nella solitudine della loro cella attraverso la pura contemplazione il Trascendente.
I due estremi di questo percorso simbolico sono costituiti da due monumenti posti sullo stesso asse prospettico, passante per l’ingresso alla Certosa: l’arco settecentesco di S. Brunone, situato a circa 500 metri dal portale di ingresso, e lo Scalone ellittico posto a conclusione del grande chiostro, una spettacolare scala aperta napoletana realizzata da Gaetano Barba, che stride con la compostezza del chiostro. Oltre questo scalone si distende il Giardino di clausura, detto desertum, alludendo alla Tebaide, il paesaggio arido e pericoloso in cui si ritirarono i primi anacoreti.
Ma il desertum certosino, pur conservando il carattere di luogo di solitudine e preghiera, è divenuto, grazie al lavoro ed all’ingegno dei monaci, un parco fiorito.
E allora l’esuberanza barocca dello scalone si spiega come preludio a questo giardino paradisiaco, ove nel silenzio estremo avviene il tanto anelato incontro dei monaci con Dio.