Usi e Costumi

Tratto da "Culture, Danze e Popoli" - Comunità Montana Vallo di Diano - Febbraio 2007

USANZE FAMILIARI
Il recupero delle memorie nel loro contesto di vita quotidiana, rappresenta un atto dovuto verso le generazioni future, per non perdere il quadro della identità locali insite nelle radici culturali, ecco perché si concentri, ora, l’attenzione su tutta una serie di abitudini ed usanze che si andarono per lunghe generazioni sviluppando intorno alle tradizioni familiari, come Battesimo, Matrimonio e riti funebri.
Poiché si riscontra una uniformità di comportamenti e manifestazioni, tra i vari paesi del Vallo, si può parlare, facilmente di una comune “civiltà”, che conobbe la sua diffusione in una vasta area territoriale.
Per quanto riguarda il Battesimo, era usanza comune porre intorno al collo del bambino un quadrato di stoffa fissato ad un nastro su cui si cuciva l’immagine della Madonna del Carmine, tipico di Sala, mentre a Padula, il pezzo di stoffa veniva sostituito da un pezzo di carta, su cui il sacerdote scriveva le prime parole del Vangelo di San Giovanni, che veniva cucito, poi, in un pezzo di stoffa benedetto. A San Pietro i compari venivano scelti di condizione borghese, dai contadini, mentre a Monte San Giacomo soltanto la levatrice e i compari accompagnavano il bambino al fonte battesimale, i genitori attendevano a casa per la grande festa, con la realizzazione di una lunga e succulenta tavolata.
Si può senz’altro dire che le tappe progressive della vicenda amorosa di due giovani, si articolano intorno ai seguenti cardini: l’innamoramento, la serenata, la “mmasciata”, i capitoli, “la iuta ri li panni”, la cerimonia nuziale, il pranzo, la “simane ra zita”.
Accanto a queste situazioni, vi erano, poi, delle regole di costume, che riguardavano l’età degli sposi e il contegno da tenere durante il periodo di fidanzamento, specialmente da parte della donna.
Entrambi i giovani andavano a nozze, in età molto giovane, verso i 15/16 anni, questo fatto è spiegabile se si considerano le condizioni economiche delle famiglie in quei tempi: una persona che andava via era un sollievo, perché era una bocca in meno da sfamare.
Spesso le precauzioni e i meccanismi di vigilanza diventavano assurdi ed esagerati, tanto che i due fidanzati non potevano parlarsi o addirittura scherzare, dovendo stare a debita distanza l’uno dall’altra e se, in 
qualche paese, avvenuto il fidanzamento, era consentito al ragazzo di accompagnare a messa, la domenica, la sua amata, essa doveva essere “scortata” da sorelle, zie e cugine. Inoltre il fidanzato poteva recarsi a “fare l’amore” a casa di lei ogni sera e in alcuni paesi, come San Rufo, poteva restare a cena solo di giovedì e di domenica.
Un rito da ricordare è quello del “ceppone”: lo portava durante la notte, il pretendente, accompagnato dai familiari, con una lanterna in mano. Se il ceppo veniva introdotto in casa, i genitori di lui potevano entrare, ma non l’aspirante fidanzato, almeno in quella circostanza, inoltre il ceppo tutto infiocchettato era segno della condizione economica del mandante.
Un’altra occasione di incontro d’amore erano le serenate quando il ragazzo si recava sotto la finestra dell’innamorata e con canti, dalle mille immagini e coloriture poetiche, spesso eseguiti in comitiva e con l’appoggio di una fisarmonica o di una chitarra, esternava la passione che lo tormentava e suggeriva alla ragazza numerosi espedienti per sfuggire alla sorveglianza materna esortandola a parlare apertamente.
La “mmasciata” era un rituale, che, a volte con leggere sfumature, si svolgeva in maniera identica in tutti i paesi del Vallo: la richiesta di matrimonio si faceva fare alla famiglia della futura sposa, da una persona anziana circondata di rispetto o da uno stretto parente.
Ricevuta la “mmasciata”, i genitori della ragazza, chiedevano un periodo di tempo per dare la risposta.
Una volta espresso il consenso, il giovane dopo 15/20 giorni, doveva accompagnarsi con i propri genitori alla sua casa. Subito dopo si stipulavano i capitoli, gli atti di costituzione dotale; nella maggioranza dei casi, essi venivano sottoscritti, alla presenza delle parti contraenti, da un notaio.
Un’ altra simpatica cerimonia, presente in alcuni paesi, e di poco precedente il matrimonio era la “iuta ri li panni”: il corredo e gli utensili domestici venivano portati, il giovedì precedente il matrimonio, in una specie di processione dalla casa della sposa a quella che era destinata a futura sede della coppia. Prima però che il corteo si muovesse - più persone operavano il trasporto, maggiore era il prestigio sociale che circondava la famiglia - c’era stata l’esposizione degli oggetti nell’abitazione della donna, la quale era stata, su invito di casa in casa, meta della visita del vicinato e del paese.
Nella prima settimana di matrimonio, “a simana ra zita”, la sposa, per non essere considerata sfacciata, doveva farsi vedere in pubblico il meno possibile: la prima uscita comportava l’andare in chiesa alla messa della domenica, avveniva così la consueta “ assuta”.
Il legame con i defunti era estremamente forte in passato, i lutti duravano interi anni e a volte anche tutta una vita, inoltre proprio il sogno veniva inteso come unico mezzo di comunicazione con l’aldilà; le anime giunte in sogno richiedevano il suffragio di un’opera buona, di una preghiera per migliorare la propria posizione nel Regno dei Cieli.
Il culto dei morti, che misura l’umanità e il grado di civiltà di un popolo, e soprattutto il lutto, erano basati su diverse norme, fedelmente osservate. Ad esempio, agli uomini non era consentito radersi la barba per qualche settimana oppure anche per mesi interi, ciò dipendeva dalla gravità del lutto; le donne invece non cambiavano le proprie vesti per mesi interi, e sia per le vedove che per le mamme, il lutto durava tutta la vita, anche se un’eccezione alla regola era rappresentata dalle madri che perdevano i propri piccoli da bambini; mentre per le donne era raro che dopo la morte del proprio congiunto potessero risposarsi, per l’uomo passare a nuove nozze era cosa normale, quasi ovvia.In occasione poi delle feste patronali del paese, chi aveva subito nell’anno un lutto, non vi partecipava, le famiglie intere non uscivano neppure dalle proprie case, chiudendo porte e finestre ed anche i bambini erano costretti a rimanere in casa, infatti non era permesso loro neppure sostare dinanzi alla porta.
Per quanto riguarda il culto dei morti, anche in questo caso diverse sono le usanze, spesso ancora presenti nel Vallo, come lasciare durante la notte tra il 2 e il 3 novembre, il lumino sulle finestre per illuminare il cammino delle anime dei defunti che ritornano nei luoghi dove hanno vissuto, oppure lasciare sul caminetto castagne bollite ed un bicchiere di vino come ristoro una volta che il morto giunge in casa, per visitarla. 

USANZE DELLA LITURGIA CATTOLICA
La Chiesa è sempre stata identificata come il motore trainante della vita non solo religiosa, ma anche sociale ed economica dei territori del Vallo di Diano: il contadino, il pastore, il bracciante vivevano in un mondo sottomesso da calamità naturali, da violenze e la fede era vista come l’ unica ancora di salvezza per poter fronteggiare l’esistenza stessa. Ecco perché liturgie cattoliche come il Natale, la Pasqua e tutte quelle festività “comandate”, sono legate ad altrettante usanze che ancora oggi sono in uso e, nelle quali è possibile assaporare quella straordinaria originalità, quel forte senso di spiritualità che in un’epoca come quella odierna è comunque molto difficile poter apprezzare.
L’atmosfera natalizia è oggi legata all’allestimento del presepe, con carta crespa per le montagne, casette costruite in cartone, muschio, raccolto in montagna , per fare il prato, statuette di pastori, orientati verso la capanna dove si trovano la Vergine e S. Giuseppe in adorazione del Bambinello: simboli dell’avvento del Natale. Presepe, albero, zeppole, elementi della tradizione che ancora oggi rappresentano le note festose di un tempo che è stato, di un pezzo di storia che abbiamo accolto e tramandato nel tempo.
Per i riti pasquali, ci si riferisce innanzitutto a quelli del periodo della Quaresima, periodo di penitenza, periodo di preparazione alla Resurrezione. La quinta domenica di passione si copriva la croce con un velo oppure con una stoffa color viola, simbolo di lutto, mentre la settimana successiva, detta di Lazzaro, non si piantavano le patate, non si toccava il salame, non si andava in mezzo al grano; usanze queste che molto spesso sono scomparse, tanto che questo periodo di passione che precede la Pasqua, trascorre come tutti gli altri giorni dell’anno.
L’atmosfera della settimana Santa era quella di un periodo di forte spiritualità, un periodo di pulizia per l’anima, che rispecchiava quella dell’ambiente domestico: infatti all’avvicinarsi della Pasqua la tradizione voleva che si pulisse la casa, si toglievano le ragnatele, si lavavano con la cenere le tende, si pulivano i vetri delle finestre e le lampadine, operazioni che allo stesso modo si effettuavano in tutti i paesi del Vallo.

USANZE DELLA LITURGIA PAGANA
Le immagini storiche che si prefiggono di esaminare la vita sociale del passato nelle sue più svariate articolazioni, per quanto riguarda il Carnevale nel Vallo, hanno incontrato non poche difficoltà, in quanto manca l’apporto di una autentica e accurata documentazione scritta intorno a questo argomento. Ci si deve allora affidare e scavare nella memoria di coloro che furono i protagonisti di alcune manifestazioni o ne sentirono parlare per riuscire ad individuare alcune linee generali di tendenza e un filo conduttore uniforme di dette manifestazioni.
Sulle origini del Carnevale è opportuno chiedersi se esso sia un momento magico - propiziatorio oppure un momento ludico, legato a persistenti condizioni di indigenza.
Il ricorrere a travestimenti fantasiosi, il sentirsi da parte del popolo, padrone del paese almeno per un giorno, il calcare l’accento, quasi con ossessione, su argomenti gastronomici, sono tutti segni che portano ad individuare gli aspetti caratteristici del Carnevale.
In quel giorno, la gente comune, quella che per il resto dell’anno non aveva una storia tutta sua per il ruolo di inferiorità prefissatole dagli schemi rigidi della struttura sociale, godeva di qualcosa che le spettava 
di diritto, perché del “ rito” era l’anima e ne interpretava da sola, esigenze e motivazioni.
Tutto il mondo espressivo del Carnevale di queste terre, si lega ad un sogno sempre presente nell’immaginazione della gente, almeno nel passato: la possibilità di una grande “abbuffata”
Legati al Carnevale vi erano poi due tradizioni, quella del “coccolone” e quella del “ciaòne”, due specie di filastrocche augurali.
Data la scarsezza di altre forme di divertimento, le maschere, insieme alla festa del patrono, offrivano alla gente una delle poche occasioni di allegria collettiva ed incontrollata baldoria.

Una festa religiosa, un giorno consacrato secondo la liturgia cristiana, al Battesimo di Gesù nel Giordano, all’adorazione dei Magi e alla trasformazione dell’acqua in vino alle nozze di Cana è l’Epifania. 
Festa augurale, in molti paesi e in particolare in quelli mediterranei, offre occasione per lo scambio di regali e per la celebrazione di manifestazioni folkloristiche.
L’ Epifania, dal greco apparizione, dovrebbe così essere un momento per riflettere, per far capire che il “passaggio” dell’esistenza sulla terra, contiene da sempre la certezza di una fine e la speranza di un principio migliore.
Inoltre è proprio durante la notte dell’Epifania, che fino ad alcuni anni fa, si era soliti far maritare le vedove. Un corteo festoso al suono della “tofa”- zucca secca e svuotata che emetteva un suono stridulo- si recava sotto la finestra di una vedova e cantando un tipico ritornello, si ballava. Se la vedova gradiva la proposta, offriva da mangiare e da bere all’allegra compagnia, se la risposta di matrimonio era respinta, la vedova si vendicava gettando dei tizzoni ardenti, una pentola di acqua oppure un mattone sulla compagnia.

ALTRE USANZE
Degne di essere menzionate, sono “quelle altre usanze”, ancora molto particolari che sopravvivono solo in parte.
La chiamata” in occasione dell’uccisione del maiale, che consisteva in un invito a pranzo a cui partecipavano tutti i parenti e gli amici più stretti, metteva in evidenza i rapporti stretti e intimi tra le famiglie. L’invito, al quale partecipavano fino a 50- 60 persone, veniva fatto dal capo famiglia oppure dalla matrona con alcuni giorni di anticipo affinché ci fosse la partecipazione di tutti. 
Il vino non mancava mai, come non mancavano mai neanche frutta, castagne, noci, fichi secchi, lupini ecc.
La giornata si concludeva con i tradizionali giochi della morra, lu patrone e lu sutta, lu toccu, rendendo tutti un po’ brilli; il tutto accompagnato dal suono dell’organetto con il quale si intonavano canti popolari.
Altra usanza era la cuccìa, che veniva celebrata tutte le domeniche del mese di maggio, un rito di passaggio, collocato nelle feste di primavera.
Tutto il vicinato, gli abitanti del vicolo, del cortile, scendevano nella via o vicolo e la trasformavano in cucina, infatti il nome cuccia deriva dalla storpiatura del termine cucina. Si accendeva il fuoco, e si metteva a bollire una grossa pentola d’acqua con all’interno cereali, ceci, legumi, fave, piselli, grano, lenticchie e si celebrava così il simbolico passaggio dalle scorte invernali ai prodotti freschi della primavera.

COSTUMI DEL VALLO DI DIANO
Ogni più piccolo e sperduto paese può vantare un suo “costume”, nel quale la comunità si riconosca e che rappresenta il simbolo palese di una identità locale “orgogliosamente” indossato. Sarebbe, quindi, utile, che qualcuno conservasse questi ricordi, prima che scompaiano del tutto e prima che si arrivi a non custodire e difendere una tradizione culturale che è testimonianza viva di un passato e di una società antica, che accomuna tutti gli operosi paesi della valle.
I costumi del Vallo si impongono da sempre all’attenzione sia per la ricchezza degli ornamenti, sia per la varietà dei colori, infatti proprio per questo, le donne che mostravano queste vestiture erano indicate con il termine di “ pacchiane”: dal latino volgare patulanus, “che resta a bocca aperta”. E’ un abito quindi che suscita stupore e meraviglia per la bellezza popolana e insieme per l’ingenua eleganza.
E così pur avendo particolarità che variano da paese a paese, in tutti i costumi del Vallo si notano i colori scuri (nero, turchino, marrone) delle gonne, lunghe fino alle caviglie.
Quando poi la donna perdeva una persona cara, portava l’ abito nero, con busto accollato, monacale da cui uscivano soltanto le maniche della camicia, unico contrasto di colore ammesso al lutto, per tutta la vita, se si fosse trattato del marito, dieci anni per la morte dei genitori, tre anni per i nonni, uno per gli zii. Al collo e alle spalle, per nascondere il colletto bianco della camicia, metteva un fazzoletto nero, neri erano anche il fazzoletto in testa e le calze di lana.
Il contrasto apparentemente insanabile tra la ricchezza dell’abbigliamento e le condizioni generali di indigenza, trova una sua spiegazione nel significato profondo che è legato al concetto di “costume popolare”, simbolo di identità locale e orgoglio di una comunità per la quale esso rappresentava la propria dignità e storia, un oggetto carico di significati, che costituiva nell’ambito familiare una ricchezza da proteggere e tramandare e in una sfera più ampia, il segno della propria collocazione sociale.