Artigianato Locale

Artigianato locale e i Mestieri del passato
Tratto da "Culture, Danze e Popoli" - Comunità Montana Vallo di Diano - Febbraio 2007

L’artigianato è una attività che coinvolge la creatività, la fantasia, l’intuito, l’intelligenza, dell’uomo oltre che le sue abilità tecniche. Uno sguardo al passato, permette di verificare quanto questa attività abbia costituito per secoli “l’industria” dell’uomo: grazie ad essa egli è riuscito a procurarsi tutti quegli oggetti atti a soddisfare sia i suoi bisogni materiali che quelli estetico - spirituali.
L’artigianato viene, perciò, praticato già dagli uomini primitivi, abili nel costruire attrezzi agricoli ed armi – in genere gli uomini – e nel lavorare pelli, tessuti, e vasi – in genere le donne -, trasmettendo queste esperienze e queste tecniche di padre in figlio. In seguito, si attua la distinzione tra l’artigiano, colui che produce “con le sue mani” grazie alle conoscenze che gli sono state tramandate e l’artista che per la sua genialità esprime nella sua opera uno spirito creatore. Con l’avvento della rivoluzione industriale l’artigiano è costretto “a chiuder bottega”; si assiste allora, al “coma” dell’artigianato, da molti ritenuto irreversibile.
Nasce, così, l’idea che esso sia un’attività produttiva in costante opposizione con l’industria, si pensa ad un ritorno alle tecniche, agli strumenti, ai materiali, ai modi di eseguire il lavoro di un tempo e quindi alla possibilità di un mitico ritorno all’età dell’oro, in cui l’artigianato abbia nelle sue mani potere, prestigio e ricchezza.
Ma questo non è possibile, va riconosciuto invece, che questa attività non è un settore produttivo da “restaurare”, e se è da esso che deriva l’industria di oggi, questa non può ritenersi sua rivale.
Il discorso, allora, non si chiude ponendo una drammatica scelta fra “industria e artigianato”, ma affermando “l’industria e l’artigianato” in un rapporto di reciproca integrazione, in cui l’accento venga posto sull’uno e sull’altro termine del binomio, in relazione al tipo di realtà territoriale, in cui questi settori produttivi devono trovare il loro giusto spazio.
Inoltre se si allarga l’orizzonte e si pensa ai Paesi sottosviluppati, l’artigianato non va più ritenuto come un’attività esemplificativa della loro civiltà ma, come l’attività base del loro progresso, per diventare un valido co-protagonista dello sviluppo economico.
Gran senso e rispetto della vita e del lavoro dell’artigiano, dell’uomo “ faber fortunae suae” si trovano nelle parole che Edward Lucie Smith pone a conclusione del capitolo primo della sua “ Storia dell’artigianato”: “La scelta della professione di artigiano è una decisione radicale presa spesso in segno di protesta contro un ambiente e un modello di vita disumanizzanti. Il nostro atteggiamento nei confronti di chi fa questo tipo di scelta è una curiosa miscela di gelosia, invidia e onesta ammirazione.” 
Il lavoro è un bene o un male, una condanna o una benedizione per l’uomo: una vecchia tematica, che ha origini molto antiche.
Un tempo, l’uomo viveva, innocente e felice senza fare alcuno sforzo, perché la natura gli offriva tutto ciò di cui egli bisognava. Il mito di un’età meravigliosa , in cui tutto è pace, serenità, in cui il lavoro non esisteva, o se esisteva, era gioioso, privo di sofferenze finì e l’uomo fu condannato a lavorare, a ricavare col sudore della fronte i prodotti necessari al proprio sostentamento.
La concezione del lavoro come condanna , come maledizione , come forma oppressiva della società attuale, dura tuttora, come dura la concezione antitetica, del lavoro come dovere, come necessità, come nobiltà, come soddisfazione, come realizzazione delle potenziali attitudini umane, addirittura come provvidenziale dono della natura per tenerci impegnati , onde non pensare alla tragicità della nostra condizione e quindi non angosciarci.
Le prime attività artigiane, a carattere familiare, furono legate alle necessità contadine, come la lavorazione del latte, per ottenere ricotta e formaggi, e quella del grano e del granturco, per ricavare farina macinata nei mulini ad acqua e confezionare il pane. Anche la produzione del vino aveva carattere artigianale, molti erano infatti i terreni coltivati a vigneto, sia in collina che in pianura.
Da menzionare al riguardo i “gguari”, sporte di forma cilindrica senza manici per il trasporto di legna o letame posti sul dorso d’asino; i “fuscieddi”, nei quali si mettevano in forma ricotta e formaggi ed il lavoro fatto dagli “li mbagliasèggi”, che su scheletri in legno intessevano i sedili delle sedie con paglia ritorta. 
In stretta relazione con le necessità della vita si sviluppò la lavorazione della creta, della pietra, del legno e del ferro.
Quelli che lavoravano la creta, i cosiddetti “pignatari” creavano brocche, piatti, pignatte, anfore, “irmici”, “arzuli” e maruotti – pastori da presepe- ; anche se questa attività contava un florido passato, è andata quasi scomparendo, per non essere riuscita a contrapporsi alle forme industriali attuate in alcuni paesi del Vallo.
La lavorazione della pietra, tramandatasi di generazione in generazione, costituì invece una delle maggiori attività del territorio: più limitata era la produzione degli scalpellini santarsenesi, per essere la pietra di quella zona, calcarea e quindi meno adatta alla lavorazione, anche la pietra di Polla non permetteva una lavorazione accurata e rifinita, essendo un conglomerato a grossi ciottoli; più pregiata era invece, “la pietra di Padula”, semigranitica, adatta per ottenere importanti busti di santi, portali di chiese ed abitazioni ed ancora oggi lavorata industrialmente, ma di fattura grezza e spesso di qualità scadente.

Inoltre per trasformare le capanne e le baracche in case in muratura fu necessario procurarsi la calce che si ottenne ponendo a cuocere le pietre calcaree in apposite fornaci, le “carcare”. 
Ed infine , il lavoro del “forgiaro”, che all’inizio si limitò a sagomare ferri di cavallo, zappe, vanghe, serrature o chiodi e nei secoli successivi, allargò il suo campo alle costruzioni edilizie.
Vi erano poi i calzolai in gran numero, “scarpari”, che prestavano la loro opera anche a giornata per riparazioni o confezioni di calzature nuove, fatte con pelli molto consistenti, poco morbide e con abbondante chiodatura.
Poiché il risparmio ed il senso dell’economia, costituivano la base morale degli individui, spesso si andava dal calzolaio per cuciture e rattoppi, si aggiustavano o riaggiustavano scarpe che venivano buttate solo quando diventavano inservibili, dopo che più volte erano state ricucite parti, messe toppe su strappi anche vistosi, risuolate, coperti sulla suola con particolari chiodi a testa piatta o con “salva punt’e salva tacc’” per farle durare più a lungo, tagliate alla punta o al tallone per essere trasformate in ciabatte.
Da ciò si può evincere quanto fosse diverso e faticoso il lavoro artigiano del passato, quando la giornata cominciava con le prime luci dell’alba e si concludeva con il buio della sera; il lavoro per tutto il giorno non conosceva sosta, i diritti non esistevano e la vita dura non risparmiava neanche gli apprendisti, che erano costretti a fare, il medesimo lavoro del “maestro” e ad eseguire tutti i suoi ordini, senza alcun riconoscimento o retribuzione, solo per imparare il mestiere.
Tanto lavoro da lasciare a sera stremati, ma che spesso non forniva neanche il necessario; i soldi circolavano poco, spesso la paga era in natura e dipendeva dall’andamento dell’annata perché la gran parte delle persone poteva saldare il debito solo dopo il raccolto o la vendita di un animale della fiera.